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La curiosità

Immagine del redattore: Absalão MarquesAbsalão Marques

Le letture di quest’anno del lezionario, fatte nel culto d’inizio anno scolastico nel seminario in cui insegno, sono state abbastanza curiose. Furono tratte dal Salmo 90 (“Tu fai tornare i mortali in polvere e dici: Ritornate, o figliuoli degli uomini”), da Ecclesiaste 1 (“Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste; vanità delle vanità; tutto è vanità”) e Luca 9 (“Ma Erode disse: Giovanni l'ho fatto decapitare; chi è dunque costui del quale sento dir tali cose? E cercava di vederlo”). Pensando all’incoraggiamento per lo studio dei seminaristi, si potrebbe pensare che qualsiasi passaggio sarebbe stato meglio di questi.

Non possiamo negare il carattere sobrio di queste letture della Scrittura. Il Predicatore di Ecclesiaste, in particolare, sembra determinato a minare anche il principiante più dedito: tutto il nostro lavoro è hevel, vanità; è un soffio di vento, fragile, vano, inconsistente. L’insegnamento accademico è pieno di libri, parole su parole. E il Predicatore ci ricorda che “si fanno dei libri in numero infinito; e molto studiare è una fatica per il corpo” (12.14).

Perché L’Ecclesiaste afferma che sia una cosa vana dedicarci ai nostri studi? Perché non importa quanta conoscenza accumuleremo nei nostri cervelli, essi non si riempiranno mai: “l'occhio non si sazia mai di vedere, e l'orecchio non è mai stanco d'udire” (1.8). I nostri occhi leggono pagina dopo pagina, le nostre orecchie ascoltano lezione dopo lezione; ciononostante, non giungiamo mai alla soddisfazione. In fin dei conti, è sempre la stessa cosa, che sappiamo già dall’inizio alla fine. “V'ha egli qualcosa della quale si dica: 'Guarda questo è nuovo?'” (1.10). L’Ecclesiaste sembra minare l’appetito insaziabile per la conoscenza dei suoi studenti.

L’Ecclesiaste mette in discussione una delle nostre supposizioni culturali più stimata: il fatto che la curiosità sia una cosa positiva. La curiosità è un vizio, non una virtù. 1Giovanni 2.16 parla di tre tipi di amore mondano: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. Sant’Agostino, nelle sue Confessioni, identifica la seconda di queste, la concupiscenza degli occhi, nella curiosità. Perché? Perché vedere e conoscere sono una cosa sola. Il vescovo africano deplora la “concupiscenza di sperimentare e conoscere”. “Per soddisfare questa malsana ansia”, commenta,

scene oltraggiose sono esibite negli spettacoli. Lo stesso motivo spinge a studiare le attività della natura che vanno oltre le nostre capacità, quando non c’è alcun vantaggio nel conoscerle e gli investigatori desiderano semplicemente la conoscenza in sé. […] Anche nella stessa religione vediamo il motivo per cui Dio viene “tentato” dall’esigenza di “segni e prodigi” (Giovanni 4.48), desiderati non per un fine salvifico, ma solo per l’emozione.

(Conf.X,35,55)

“Anche nella religione”, dice Agostino. Nemmeno gli studi teologici sono immuni al vizio della curiosità.

Il Re Erode, in Luca 9, solleva un’eccellente domanda: “Chi è costui?” Questa è, prima di tutto, una domanda per tutti gli studenti di teologia. Non è la domanda in sé ad essere il problema, ma la curiosità con cui Erode la pone. Questo male dovrebbe sorprenderci. Alla fine, Erode non era una persona particolarmente virtuosa: viveva con Erodiade, moglie di suo fratello, e quando Giovanni Battista aveva osato mettere in discussione questo fatto, il re servì la sua testa su un piatto. Erode era più guidato dal vizio che dalla virtù.

Eppure, egli si impegna in una questione teologica. Le persone stanno speculando su chi sia Gesù. Erode, come vediamo, era “perplesso” dalla situazione. Potrebbe essere Giovanni resuscitato dai morti? Poteva essere Elia? O forse uno degli antichi profeti resuscitato? Non importa quanto perverso sia Erode, egli continua ad essere uno studente di teologia. Vuole sapere chi sia Gesù, e si sforza di vederlo (9.9).

Erode dà libero sfogo alla sua curiosità. La sua perplessità perdura fino alla fine, quando Pilato gli manda Gesù. Leggiamo, nel capitolo 23: “Erode, come vide Gesù, se ne rallegrò grandemente, perché da lungo tempo desiderava vederlo, avendo sentito parlar di lui; e sperava di vedergli fare qualche miracolo” (Luca 23.8).

Il desiderio di Erode è quello di vedere Gesù. Purtroppo, è mera curiosità. Era caduto nella trappola empirica della “concupiscenza degli occhi”. La sua speranza di vedere un miracolo di Gesù non può che ricordarci l’affermazione di Agostino sul fatto che, anche nella stessa religione, la curiosità nasce quando cerchiamo la conoscenza in sé, cercando di vedere “segni e prodigi”, solo per l’emozione di vederli. Erode vede Gesù, eppure, lo tratta con disprezzo, lo schernisce e lo riveste di un manto splendido (Luca 23.11). La domanda di Erode, “Chi è costui?”, procede dalla curiosità. Non è un vero studente.

Gesù rigira la domanda erodiana. “Chi dicono le turbe ch'io sia?” (9.18), chiede ai suoi discepoli. Essi rispondono con le diverse opzioni menzionate prima – Giovanni Battista, Elia, uno degli antichi profeti. “E voi, chi dite ch'io sia?” Sempre avido, con la mano alzata per primo, Pietro risponde: “Il Cristo di Dio” (9.20). Tanto Erode quanto Pietro possono immatricolarsi, ma solo Pietro sa come affrontare il tema.

Torniamo alla domanda dell’Ecclesiaste: “V'ha egli qualcosa della quale si dica: 'Guarda questo è nuovo?’” La domanda può sembrare retorica. “No”, sarebbe l’ovvia risposta. Non c’è nulla di nuovo sotto al sole. Una noia rassegnata nello studio e nel lavoro sembrerebbe inevitabile.

Eppure, il Libro delle Lamentazioni presenta il Vangelo in mezzo alle rovine di Gerusalemme: “È una grazia dell'Eterno che non siamo stati interamente distrutti; poiché le sue compassioni non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà” (La 3.22-23). Il Profeta Isaia presenta il Vangelo, promettendo una fine ad ogni esilio: “ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare; non la riconoscerete voi?” (Is 43.19). Giovanni, il Veggente, presenta il Vangelo quando vede “un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non era più” (Ap 21.1).

C’è una cosa di cui si può dire “guarda, questo è nuovo”. È il Vangelo. La cosa nuova è Gesù, il Cristo di Dio. La cosa nuova è lo Spirito della Pentecoste. La cosa nuova è la Chiesa. La cosa nuova è il Regno di Dio. Di conseguenza, tutto l’insegnamento della nuova alleanza è pieno di cose nuove.

Prima di discutere del vizio della curiosità nel Summa Theologiae, San Tommaso d’Aquino introduce il tema della studiosità (ST II-II,q.166). Egli tratta la curiosità come un vizio, ma considera la studiosità una virtù. In altre parole, non la conoscenza in sé, ma la ricerca immoderata o impropria della conoscenza è il problema. Appropriandosi del linguaggio dell’Ecclesiaste: riconoscere il Vangelo come nuovo distingue la studiosità dalla curiosità.

Coloro che desiderano essere studiosi di cose nuove devono stare attenti, poiché l’approccio di Erode è più facile di quello di Pietro, e la curiosità, più facile della studiosità. La curiosità è la ricerca concupiscente dei piaceri degli occhi; la studiosità è la ricerca sacrificale di cose che non si vedono (cf. 2Corinzi 4.18). Tanto l’approccio di Erode quanto quello di Pietro sono a disposizione degli studenti di Gesù. Siamo chiamati quotidianamente ad impegnarci in una lotta contro la curiosità, mentre esploriamo sempre più a fondo l’unica domanda che conta veramente: “E voi, chi dite ch'io sia?”

Absalão Marques

Articolo originale: https://medium.com/absal%C3%A3o-marques-portf%C3%B3lio/o-v%C3%ADcio-da-curiosidade-f25ed7e50c9, tratto da The Vice of Curiosity di Hans Boersma.

Traduzione italiana Paini Alessia @FedeRiformata.com

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